PROTOMÁRTIRES DE MARROCOS

PROTOMÁRTIRES DE MARROCOS

Ottone Petricchi da Stroncone, Berardo dei Leopardi da Calvi, Pietro dei Bonati da San Gemini, Adiuto e Accursio Vacutio da Narni.

Sono i cinque frati francescani che, uccisi in Marocco nel 1220, divennero i primi martiri dell’ordine fondato dal Poverello di Assisi.

Venerati da subito come santi dai propri confratelli (e con un certo disappunto, sembrerebbe, da parte dello stesso Francesco che ne proibì la celebrazione e anche la lettura della Cronaca) i cinque protormartiri francescani sono stati studiati a fondo dal francescanista ternano Paolo Rossi, che nel 2001 ha pubblicato il volume “Francescani e Islam: i primi cinque martiri” (Intra Tevere et Arno editore).

I cinque fraticelli erano nati tutti in una delle zone più “battute” da Francesco, che transitò nella valle ternana almeno cinque volte dal 1209 al 1226, soggiornando a Terni, Piediluco, Collescipoli, Stroncone, Sant’Urbano, Calvi, Narni, San Gemini, Cesi, Acquasparta, Amelia, Lugnano, Alviano, Orvieto e Baschi.

“Per la famigliarità e santa conversazione ch’ebbero li buoni giovani Berardo e Pietro con san Francesco – narra Ludovico Iacobilli in “Vite de’ santi e beati dell’Umbria”, scritto nel 1647 – divennero in breve perfetti religiosi e meritarono ch’esso santo patriarca l’amasse e l’elegesse ad imprese grandi, particolarmente per essere Berardo divenuto ottimo sacerdote e gran predicatore nella lingua arabica”.

Inviati a predicare agli “infedeli”, i cinque frati arrivarono a Coimbra, in Portogallo, nell’autunno del 1219 con l’intento di salpare per il Marocco. Ospitati nel monastero agostiniano di Santa Croce, qui conobbero Ferdinando da Lisbona, che dopo il martirio, alla vista dei loro corpi maciullati, deciderà di entrare nell’ordine francescano diventando Antonio da Padova.

Nello stesso anno anche Francesco decise di intraprendere un viaggio in terra islamica, con un esito però ben diverso da quello che aspettava i cinque frati umbri: il fondatore dell’ordine arrivò in Egitto, a Damietta, e riuscì a incontrare il sultano Malek Al-Kamil senza convertirlo e senza essere ucciso: il sereno e pacifico confronto, diventerà uno dei più straordinari gesti di pace nella storia del dialogo tra Cristianesimo e Islam.

La storia dei cinque protomartiri francescani, iniziò invece durante il capitolo di Pentecoste di quell’anno, al quale aveva preso parte – come osservatore – anche San Domenico con sette suoi frati. Durante la grande assemblea era stato affrontato il tema delle missioni in terra islamica: l’anno precedente, infatti, frate Egidio e frate Eletto erano partiti alla volta della Tunisia: il primo era stato fermato dagli stessi cristiani – che temevano rappresaglie – e imbarcato su una nave per l’Italia. Frate Eletto invece, molto giovane e gracile, era rimasto nel paese musulmano, dove sarebbe morto tragicamente.

La sua scomparsa aveva galvanizzato i frati, dando nuovo impulso alle missioni all’estero: ecco dunque che al capitolo di Pentecoste vennero decise le nuove partenze per la Germania, la Francia, l’Ungheria e la Spagna, che doveva servire da ponte naturale per il Marocco, verso cui lo stesso Francesco aveva già tentato invano di avventurarsi.

Iniziò così l’avventura di Berardo, Pietro, Ottone, Adiuto, Accursio e Vitale. “Figli miei diletti – aveva detto Francesco a detta del Martyrum quinque fratrum minorum apud Marochium scritto, secondo la tradizione, nel 1221 – Dio mi ha ordinato di mandarvi nel paese dei Saraceni per confessarvi e predicarvi la sua fede e combattere la legge di Maometto”. “Anche io – aveva aggiunto – andrò tra gli infedeli in un’altra regione e invierò altri frati in ogni parte del mondo. Preparatevi, dunque, figli miei, a compiere la volontà del Signore”.

Ad essere costituito superiore fu frate Vitale. Dopo un commosso addio a Francesco i frati lasciarono alle loro spalle la Porziuncola incamminandosi in direzione della Spagna.
“L’Africa sconosciuta si presentava davanti a loro – scrive Rossi – c’era Maometto che nelle Chanson de geste, negli scritti di Pietro il Venerabile e nei discorsi dei pontefici era additato come l’anticristo, la bestia dell’apocalisse, il mostro dalla testa d’uomo, il collo di cavallo e il corpo di uccello e c’erano i saraceni, qualificati in quei tempi come “gente turpe, degenere, serva dei demoni”.

Un lungo viaggio aspettava i cinque fraticelli. Nella primavera del 1219 fecero tappa in Toscana, dove avevano vissuto negli ultimi cinque anni. Si fermarono a Firenze, poi procedettero verso Lucca, Lerici, Genova, Alessandria. Da qui continuarono per Asti, Susa, Moncenisio. Poi entrarono in Francia nel Delfinato e finalmente raggiunsero il valico franco-spagnolo di Roncisvalle e insieme a altri pellegrini entrarono nel regno di Navarra e successivamente in quello di Aragona.

Qui, però, Vitale – il frate che guidava il gruppo – si ammalò gravemente. Dopo qualche giorno, racconta Iacobilli, forte della sua autorità, rivolgendosi ai suoi compagni esclamò: “Fratelli carissimi non voglio che la mia malattia ostacoli la nostra missione. Può darsi che il Signore non mi giudichi degno, a causa dei miei peccati. Proseguite dunque il cammino”.

Dopo un’iniziale resistenza, i cinque accettarono di ripartire. Ad assumere la guida del gruppo fu frate Berardo. Entrati in Portogallo, giunsero a Coimbra dove nel convento di Santa Croce conobbero il futuro Antonio da Padova e furono ospiti della regina Urraca.

“Lasciata Coimbra – scrive Rossi – scesero verso il sud del Regno, raggiungendo Alanguer, e là si presentano alla principessa Sancia”.

Fu proprio lei che, ammirata dal desiderio di martirio dei cinque frati, decise di aiutarli e offrì loro degli abiti borghesi da indossare al posto delle tuniche. Sancia infatti intuì da subito che vestiti da predicatori i cinque frati non sarebbero andati lontano: gli stessi commercianti cristiani li avrebbero allontanati per non mettere in pericolo gli affari con i mori.

Fu dunque sotto falsa identità che gli aspiranti martiri riuscirono a penetrare in territorio saraceno, a Siviglia: “Là incontrarono un buon cristiano il quale li accolse nella propria abitazione, dove rimasero nascosti alcuni giorni. Dopo circa una settimana, usciti dalla clausura senza guida né consiglio alcuni, si diressero alla moschea principale con l’intenzione di entrarvi”.
I saraceni, vista la scena, prima furono colti da stupore, poi pervasi di rabbia li cacciarono con grida furiose, ricorrendo a pugni e bastonate.

I colpi subiti e l’insuccesso però non avvilirono i propositi dei cinque. Al contrario, fecero crescere in loro la febbre del martirio: incoraggiandosi vicendevolmente, i frati si avvicinarono alla porta del palazzo reale, decisi ad entrare e predicare davanti allo stesso califfo.

Il principe moro, figlio del Califfo, sbarrò loro il passo. “Da dove venite?”

“Veniamo da Roma”. “E cosa cercate qui?”, “Vogliamo parlare con il sultano di cose che interessano lui e tutto il suo regno”. “Avete delle credenziali?”. “Il messaggio affidatoci non lo portiamo per iscritto, esso è scolpito nella nostra mente e fissato nelle nostre parole”.

Il principe si propose di fare da mediatore, ma i frati insistettero nel voler parlare con il sultano, che dopo aver ricevuto dal figlio i dettagli di quel serrato dialogo, decise di riceverli.

“Di quale paese siete? Chi ha inviati? Per quale motivo siete venuti?”

“Chi ci invia è il Re dei Re, nostro Dio e Signore, e ci invia per la salvezza della tua anima. Abbandona la falsa setta dell’infame Maometto, abbraccia la fede del Signore Gesù Cristo e battezzati: solo così facendo ti potrai salvare”. “Uomini malvagi e perversi! – rispose con rabbia il sultano – dite questo a me solo o a tutto il popolo?”.

“I cinque – scrive Paolo Rossi in Francescani e Islam – nel constatare che era già scoppiata la desiderata tempesta, insistettero: “Sappi o re, poiché sei il capo del falso culto e dell’iniqua legge di quel Maometto ingannatore, sei peggiore degli altri e ti aspetta all’inferno una pena maggiore”.

Il sultano, colmo d’ira, ordinò l’immediata decapitazione degli imprudenti religiosi. Ma la loro reazione fu la gioia: “Questa sì che è fortuna fratelli! Abbiamo trovato quello che stavamo cercando. Non ci resta che perseverare, senza il minimo timore di morire per Cristo”.

“Il principe, che aveva assistito alla singolare scena – spiega Iacobilli – suggerì loro: “Disgraziati! Perché tutto questo desiderio di morire così da codardi? Seguite il mio consiglio: smentite quanto avete detto sulla nostra legge e contro il profeta di Dio, Maometto: fatevi saraceni e continuerete a vivere: provvederemo inoltre a procurarvi immense ricchezze”.

“Disgraziato tu – risposero i frati – se conoscessi quali e quanti tesori ci aspettano nella vita eterna per il fatto di morire in questo modo, non penseresti assolutamente di offrirci tali beni fugaci”.

A questo punto, spiega Iacobilli, il principe ebbe pietà di “quella pazzia così rara” e tornato dal padre, cercò di calmarne lo sdegno del sultano e gli ricordò che la legge prevedeva che prima di una condanna a morte venissero consultati gli anziani.

Il sultano si calmò, ma come primo provvedimento ordinò che i cinque venissero isolati sul terrazzo di un’alta torre. Con scarsi risultati: “Essi, presala per un pulpito, con ancor più accesa febbre di martirio gridarono ai passanti la verità della fede cristiana e la falsità della fede islamica. Il sultano venuto a conoscenza del fatto, li fece rinchiudere nella prigione sotterranea della torre”.

Poi li chiamò per un nuovo faccia a faccia, cercando di convincerli a desistere dal loro proposito. Infine, convintosi che il tentativo è inutile, convocò il Consiglio dei saggi e degli anziani del regno. Ma i cinque frati “inflessibili, approfittarono di quell’assemblea per annunciare con fermezza la loro fede. A questo punto il re, deciso a porre fine a quell’ingrata sfida, ordinò l’immediato esilio di quei pazzi frati”.

Intuendo che se li avesse inviati in Portogallo o in Castiglia, una volta oltrepassata la frontiera i cinque sarebbero stati capaci di tornare nel suo regno, il Califfo li mise sulla strada per il Marocco, tanto più che in quei giorni doveva salpare per l’Africa l’infante don Pedro, fratello del re di Portogallo e di donna Sancia che – in attrito con Alfonso II – era passato alle dipendenze dei Mori pur mantenendo fede alla religione cattolica. Fu dunque Pedro, grande ammiratore dei francescani, a condurre i cinque nella sua abitazione e a ospitarli.

Arrivati a Marrakech i cinque frati ripresero a predicare; fu in particolare frate Berardo, discreto conoscitore della lingua araba, a lanciare strali contro l’Islam e a invitare alla conversione.

“I Mori – racconta Rossi – vedutili e convinti che si trattasse di girovaghi privi di intelletto, si fermarono, curiosi ad ascoltarli”.

Un giorno frate Berardo, mentre era ritto su di una carrozza abbandonata e predicava a quanti passavano, vide avvicinarsi Abu-Yaqub, l’emiro “capo dei credenti”, in arabo “amìru-l-mù minin”, indicato come Miramolino dai cronachisti cattolici medievali.

Il sultano, insieme al suo seguito, si stava recando a visitare il sepolcro dei suoi antenati, fuori dalle mura della città: “Stizzito nel vedere quei frati e udendo l’audacia predicatoria di Berardo, ordinò l’immediato silenzio. Ma il predicatore, imperterrito, continuò a proclamare la verità del Vangelo di Cristo e a criticare, con toni gravi, la filosofia di Maometto. Convintosi della gravità del fatto, Abu-Yaqub, ardendo di collera, decretò che i cinque autori della grave offesa alla fede islamica fossero immediatamente espulsi della città e obbligati a tornarsene in un paese cristiano”.
“Meno feroce di come viene descritto nelle antiche biografie antoniane – scrive Paolo Rossi – il Miramolino aveva tollerato la presenza di navigatori e commercianti spagnoli e portoghesi, stabilitisi nelle sue terre per affari, senza esigerne la conversione, a patto che non manifestassero in pubblico la propria fede. Ma per quanto tollerante, non poté far finta di nulla quando i nostri francescani cominciarono a predicare il Vangelo di Cristo, invitando addirittura i musulmani a convertirsi”.

Miramolino, però, volle mostrarsi generoso: non li condannò a morte ma li affidò a don Pedro perché li conducesse a Ceuta per poi rimpatriarli. Ma i cinque elusero la vigilanza delle guardie e sfidarono ancora i divieti del califfo. E tornarono a predicare di fronte all’attonita popolazione musulmana nel suk, il formicolante mercato di Marrakesch. Accorse don Pedro che li prelevò di nuovo, anche per evitare che la furia del sultano si riversasse contro gli altri cristiani. I cinque vennnero scortati a Ceuta da un picchetto di soldati. Ma lungo il percorso evasero ancora, tornarono in città e ripresero la predicazione nel mercato. Il sultano, sempre più irritato, ordinò che i frati venissero incarcerati e lasciati senza cibo né acqua.

Dopo tre settimane di digiuno totale, uno dei consiglieri del Miramolino, di nome Abatourim, “uomo islamico che non nascondeva le proprie simpatie per i cristiani” suggerì di lasciarli liberi ritenendo che il castigo postesse essere sufficiente a scoraggiarli.

Il sultano si convinse: li liberò e li espulse ancora una volta dal paese. Ma ancora una volta, i cinque, fuggirono e tentarono di riprendere la predicazione.

Vennero fermati, questa volta, dagli stessi cristiani. Scrive Rossi: “Frate Berardo venuto a conoscenza del timore dei cristiani che l’odio islamico potesse ritorcersi anche contro di loro, rise e si addolorò. Tuttavia, per pietà di quell’ingenuo credere, non proferì parola”.

I cristiani li presero in custodia e “posero nuovamente quei cinque testardi sulla strada per Ceuta”. Sottovalutando ancora una volta, però, le loro capacità di fuga.

La situazione divenne presto insostenibile: don Pedro, esasperato, si arrese all’evidenza: quei frati stavano facendo di tutto per farsi uccidere dal sultano di Marrakesch. La conseguenza fu la rovina dei rapporti tra la comunità islamica e quella cristiana.

“L’infante – scrive Rossi – dovendo in quei giorni partire con una truppa composta da mori e cristiani per soffocare una ribellione, prese con sé i nostri protagonisti. Nell’attraversare una regione desertica, l’intero drappello trascorse tre intere giornate senza che si riuscisse a reperire una sola stilla d’acqua”.

Ma un colpo di scena cambiò la situazione. Berardo bucò la sabbia con un bastone e subito dal deserto scaturì una fonte copiosa d’acqua, grazie alla quale uomini e bestie placarono la sete. Lo zampillio si esaurì una volta riempiti tutti gli otri e i recipienti in pelle. Si invocò il miracolo: “Maomettani e cristiani, giubilando per quella meraviglia, baciarono i piedi e gli abiti dei frati taumaturghi”.

La spedizione proseguì e nel continuo convivere e conversare tra mori e cristiani, un dotto e fervente islamico discusse con i cinque ma rimase schiacciato dalla loro dialettica. Rossi annota: “Un’umiliazione che non poteva assolutamente tollerare”.

Al ritorno della truppa, il Miramolino venne a conoscenza del prodigio dell’acqua e della pessima figura a cui i cinque avevano costretto il saggio imam. Poi, “la sua rinnovata rabbia divenne incontrollabile quando nel recarsi alle tombe dei suoi predecessori, s’imbatté nuovamente nei nostri protagonisti, intenti a predicare”.

Il sultano convocò subito il principe Abosaid al quale ordinò la cattura e la decapitazione dei “cinque intrusi”. Il principe, però, un po’ per segreta ammirazione e un po’ per compassione, sperando che l’intervento di alcuni nobili cristiani potesse convincere il sultano a revocare la sentenza, riusì a ritardare l’esecuzione dal mattino fino al tramonto.

In realtà nessuno, né nobile né plebeo, si offrì di fare pubblicamente da paciere, anche per il fondato timore che si scatenasse una vera e propria caccia al cristiano.

Giunta la notte, dunque, il principale Abosaid ordinò a un picchetto di soldati di portare i cinque prigionieri al suo cospetto, ma poi non si fece trovare in casa. I soldati tornarono con i prigionieri al mattino presto, ma il principe era ancora assente.

I cinque prigionieri vennero allora trasportati nel carcere principale di Marrakesch. Dopo tre giorni di detenzione, Berardo, Accursio, Adiuto, Pietro e Ottone vennero spogliati, legati, colpiti e frustati a sangue. Il principe si incaricò personalmente dell’interrogatorio.

Ma i cinque cercarono, ancora una volta, di convertirlo, minacciandolo delle pene dell’inferno. Abosaid ordinò dunque che, condotti separatamente in case diverse, ricevessero un’ulteriore dose di frustate. “Allora – scrive Giacomo Oddi in La Franceschina – furono loro messe la fune al loro colli como ad bestie, e tiravanli in qua e là mandondoli como animali salvati frustandoli e percotendoli per fine all’effusione del sangue”.

Sulle ferite dei frati venne versato aceto e olio bollente e i corpi dei religiosi furono trascinati per tutta la notte su pezzi di vetro.

Scrive la fonte cristiana: “Erano ben trenta i saraceni che con inaudita crudeltà, infierirono sui nostri eroi. Gli aguzzini si presero un po’ di riposo prima dell’alba. E nel dormiveglia ebbero tutti la stessa visione: sembrava loro che una fulgida luce discesa dal cielo, dopo aver avvolto i corpi straziati dei cinque frati, li avesse trasportati in Paradiso, tra un’innumerevole schiera celeste”. Risvegliatisi, vennero rassicurati da don Pedro che i cinque erano ancora in carcere.

Trascinati nel palazzo del Miramolino, totalmente, nudi, con le mani legate e il sangue che continuava a uscire dalla bocca, i frati vennero condotti per le strade, spinti dallo schioccare dei colpi dei frusta. Abosaid tentò per l’ultima volta di convincere i cinque a ritrattare le frasi dette contro gli islamici e contro Maometto, promettendo il perdono. Ma frate Ottone rispose mandando al diavolo “la legge empia” e bestemmiando contro il profeta Maometto. E sprezzante, chiuse il discorso sputando a terra.

Finalmente, pensarono i francescani, era giunta l’ora del martirio. Il principe arabo fu costretto ad arrendersi di fronte all’ostinato atteggiamento dei cinque frati. Li rimandò allora dal padre che tentò, ancora una volta, di convertirli promettendo donne, ricchezze e posti d’onore. Ma ricevette l’ennesimo rifiuto.

A questo punto fu lo stesso Miramolino – secondo Giacomo Oddi – a decapitare i cinque “per mezzo la fronte, et ne tagliare ce ruppe tre spade, sempre ferendo più crudelmente. Et quilli santi frati, sempre chiamando el santo nome de Yehsu, portaro con alegreza et gaudio patientemente quillo santo martirio, per amocre de crocefixo Yeshu Christo, rendendo l’anime loro cun gloriosa corona de martirio ad l’omnipotente Dio”. Era il 6 gennaio 1220.

A completare l’orgia di sangue pensarono poi le odalische. Scrive Rossi: “Come pazze, quasi esibendosi in una danza macabra, afferrarono i corpi e le teste dei cinque e li gettarono sulla strada. La plebaglia, ebbra anch’essa di furore e di sangue, legò con delle corde i piedi e le mani delle singole vittime e urlando e schiamazzando come in una scena di trionfo, le portarono fuori dai giardini del sultano e li buttarono giù dalle mura della città. Altri poi, prese come trofeo le teste e le altre parti del corpo, le portarono in mostra per le strade abbandonandosi a sfrenatezze selvagge che durarono fino a notte”.

Tramanda Iacobilli che proprio mentre morivano, i cinque frati martiri apparvero nella villa dell’infanta Sancia, figlia del re del Portogallo, mentre lei pregava in camera, portando ognuno una scimitarra nelle mani in segno di trionfo.

Intanto nella piazza i mori giocavano a palla con le teste dei cinque martiri, poi accesero un grande fuoco e ci gettarono dentro teste e corpi, che miracolosamente, secondo il racconto cristiano, non bruciarono. Una tempesta di lampi e grandine provvide poi a liberare i corpi dalla custodia dei mori e a farli finire nelle mani di due nobili cristiani che li riconsegnarono a don Pedro. I resti furono inviati a Coimbra dentro vasi d’argento.

Dalla città portoghese le reliquie vennero portate al monastero di Santa Croce e custodite in una cappella. Lì sono rimaste fino all’inizio degli anni Duemila quando, su richiesta del vescovo di Terni Vincenzo Paglia, i resti dei protomartiri sono tornati in Italia: oggi riposano in un nuovo reliquiario nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Terni, proprio di fronte alla cappella dove è venerata una reliquia del santo.

I primi cinque “veri frati” di Francesco

Berardo da Calvi, Ottone da Stroncone, Pietro da Sangemini, Accursio da Aguzzo e Adiuto da Narni (tutti “Castelli” dell’Umbria meridionale), convertiti nel 1213 dalla predicazione di frate Francesco a Terni e dintorni, sono i “cinque protomartiri francescani“; la loro cruenta vicenda è narrata da una “Cronaca anonima”, opera di un testimone oculare dei fatti.

Della loro vita precedente il martirio, si è a conoscenza di poco o nulla ma, attraverso questa Cronaca (magistralmente rinvenuta dallo storico-archivista Paolo Rossi), è possibile ricostruire il loro viaggio sulla via del Marocco, dal mandato loro affidato da Francesco, alla Porziuncola, nel capitolo del 1219, sino al dono finale della vita per Cristo e il suo Vangelo.

Seguire Gesù Cristo

La vita di S. Francesco è testimonianza di una totale adesione a Dio, di cui ha sperimentato l’amore paterno; a questo amore l’Apostolo umbro si abbandona con gioia, fiducia e speranza e vuole darne testimonianza; desidera che tutti conoscano il Padre misericordioso e il suo amore incarnatosi in Gesù; desidera portare a tutti le «fragranti parole del Signore»; identificando la via dell’amore a Dio e ai fratelli con la via della Croce; intende offrire tutto se stesso, fino al martirio, per il Vangelo.

Spinto da questo ardente amore, aveva tentalo di recarsi in Oriente nel 1211 «a predicare la fede cristiana e la penitenza ai Saraceni», ma il suo tentativo era fallito, perché i venti avevano tatto naufragare la nave su cui viaggiava contro le coste dell’attuale Dalmazia.

Il desiderio del martirio aveva continuato ad animare il Santo di Assisi, perciò egli si era messo in viaggio per predicare il Vangelo di Cristo al Sultano del Marocco, Mohamed ben Nasser, indicato dalle cronache con il nome di “Miramolino”, lettura volgarizzata della parola araba “Emir el numerin“, che significa “sultano”, cioè “capo dei credenti”.

Francesco era già arrivato in Spagna quando si ammalò, e fu costretto a ritornare ad Assisi: «L’uomo di Dio capì allora, che la sua vita era ancora necessaria ai suoi figli e, benché ritenesse la morte un guadagno, tornò indietro a pascere le pecore affidate alle sue cure».

Dopo aver organizzato l’Ordine in “Province” (1217), il Poverello di Assisi provvide a mandare frati minori in tutte le principali nazioni d’Europa.

Nel Capitolo generale celebrato nella Pentecoste del 1219, fu fatto il resoconto delle spedizioni decise due anni prima; i frutti erano stati abbondanti, ma non erano mancate le difficoltà.
Accadeva infatti che «molti vedendo l’umile e santo comportamento dei frati stabilitisi nelle loro terre e ascoltando le loro parole (…) vennero da essi e presero con umile fervore l’abito dell’Ordine»; ma poteva anche accadere il contrario: «In certe regioni erano accolti, ma senza permettere loro di costruire abitazioni, altrove venivano cacciati per paura che fossero degli eretici (…). A motivo di tali ostilità i frati furono costretti a fuggire da diverse nazioni. Così angosciati, afflitti, non di rado spogliati delle vesti e battuti da briganti, tornavano da Francesco con grande amarezza».

Non sorprende, quindi, che i frati riferirono delle sofferenze di alcuni fratelli ma, soprattutto, raccontarono il martirio di frate Eletto, ucciso dai saraceni in Egitto e morto con la Regola in mano.

Il Capitolo decise le nuove partenze per la Francia, la Germania, l’Ungheria e il Marocco; Francesco affidò la missione in Africa a: Berardo de’ Leopardi da Calvi, Pietro de’ Bonanti da Sangemini, Ottone de’ Petricchi da Stroncone, Accursio Vacuzio di Aguzzo, Adiuto e Vitale della diocesi di Narni.

Ascolto e conversione

I sei giovani frati erano stati convertiti proprio dalla predicazione di frate Francesco, quando, nel 1213, su richiesta del vescovo di Narni, Ugolino, aveva percorso i territori del ternano, testimoniando Cristo e il suo Vangelo.

Il Santo andava e veniva spesso per la “via di Terni”, e durante la «battuta apostolica lungo la piana del Nera», richiestagli dal vescovo Ugolino, aveva inizialmente sostato a Collescipoli, dove è testimoniato il miracolo di una risurrezione, per salire poi fino al municipio di Stroncone.

Qui giunto, si era fermato a pregare davanti a una immagine della Madonna posta in una edicola fuori del “castello”, quindi aveva iniziato a predicare.

Le sue parole avevano toccato il cuore degli stronconesi a tal punto che gli stessi donarono quel luogo al Poverello, perché vi facesse sorgere un Conventino.

Tra quanti accorsero a vedere ed ascoltare il Santo di Dio «che appariva a tutti come un uomo di un altro mondo», era un giovane canonico, Ottone de’ Petricchi, il quale, subito, decise di seguirlo sulla via della povertà ed umiltà evangeliche, vestendo il sacco stretto in vita dall’«umile capestro».

Poco o nulla si conosce di questo giovane e della sua vita precedente l’incontro con Francesco; certo, però, che seguì da subito il Poverello nella peregrinazione attraverso i “castelli” del ternano.

Lasciata Stroncone, Francesco sostò per alcuni giorni a S. Urbano, nell’Eremo abbarbicato ad un dirupo boscoso, poco distante da Narni, tappa successiva del suo viaggio apostolico.

In questo luogo il Santo fece esperienza concreta della tenerezza di Dio.

Tormentato da una grave malattia, desiderò ascoltare un po’ di musica come sollievo alla sofferenza, ed ecco il suono angelico di una cetra attraversare la notte; era una melodia dolcissima, ora vicina ora lontana; il canto più soave che Francesco avesse mai udito.

Lo sconosciuto citaredo era un angelo musicante: con le sue note donò sollievo al corpo malato del Poverello e ne rinfrancò lo spirito, perché «il Signore che consola gli afflitti non lo aveva lasciato senza consolazione».

Dai dintorni molti pellegrini salivano all’Eremo, per vedere ed ascoltare l’Apostolo umbro.

Forse proprio allo Speco avvenne l’incontro decisivo con Francesco di altri tre dei giovani scelti poi dal Santo per la missione in Marocco: Accursio che proveniva dal vicino castello di Aguzzo, Adiuto e Vitale entrambi abitanti nella diocesi di Narni.

Lasciato lo Speco, Francesco passò per Calvi, dove avvenne l’incontro con Berardo de’ Leopardi. Questi lo ospitò nella propria casa e gli donò un terreno su cui poi sorse un Conventino, quindi lo seguì divenendo «perfetto sacerdote e gran predicatore nella lingua arabica».

Raggiunta Narni, dove lo attendeva il vescovo Ugolino, Francesco «vi sostò per alcuni giorni per predicare la Parola di Dio» ed operando alcuni miracoli; si spostò poi a Sangemini dove ancora una volta operò prodigi e conversioni.

A Sangemini si aggiunse alla crescente schiera dei suoi “figli“, frate Pietro de’ Bonanti che «divenne un dotto e buon sacerdote», e meritò che san Francesco «l’amasse ed elegesse a grandi imprese insieme a fratello Berardo».

In cammino accanto a Gesù Cristo

A Ottone, Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto e Vitale, il Poverello d’Assisi affidò, alla Porziuncola, la missione in Marocco.

Solo Vitale, il più anziano, ammalatosi appena giunto in Spagna, non potrà portare a termine l’incarico.

Gli altri cinque tennero fede alla missione affidata loro, a prezzo della vita: sono i “Protomartiri Francescani“.

I sei frati avevano svolto la loro opera nella Provincia toscana, ed erano tornati in Umbria proprio per partecipare al Capitolo del 26 maggio 1219.

E’ toccante il colloquio che la Cronaca attribuisce a Francesco e ai sei al momento della partenza.

Il Santo li avvia alla missione dicendo: «Figlioli miei carissimi […] state tra voi uniti d’un sol cuore; e se nulla avete che vi renda abili a quest’opera tanto difficile, mettete in Dio la vostra speranza, che egli vi sarà guida e fortezza in ogni vostro bisogno. La prontezza della vostra obbedienza in prendere questa missione di tante fatiche e pericoli, mi consola ma il dividermi che fo da voi, mi strazia il cuore di gran cordoglio, perché vi amo quantunque essendo questo mio amore da Dio e per Iddio mi e più caro di servire la sua gloria da me distaccandovi che alla mia tenerezza soddisfare».

I sei si inginocchiano ai piedi del Poverello, e Vitale, rispondendo a nome di tutti, chiede a frate Francesco che preghi per loro e li benedica; il Santo, con le lacrime agli occhi, esaudisce la nobilissima richiesta, e invoca su di loro «la benedizione di Dio Padre che li regga e fortifichi e consoli in ogni tribolazione».

Subito i sei frati si misero in cammino, «seco portando per tutto viatico il solo breviario e la grazia di Gesù Cristo».

Iniziarono un lungo e faticoso viaggio di risalita della penisola fino al Moncenisio, poi, attraverso la Francia, fino al passo di Roncisvalle, per arrivare finalmente al Regno di Aragona.

Qui giunti, Vitale, superiore della spedizione, si ammalò gravemente e, nonostante le resistenze dei compagni, restii a proseguire senza di lui, li spinse a riprendere subito il viaggio sotto la guida di Berardo.

*Una testimonianza che illumina

«Trapassarono il rimanente della Spagna da per tutto e a tutti predicando con la parola e con l’esempio la riformazione dei costumi e l’amore della croce».

Raggiunta la città di Coimbra in Portogallo, si fermarono presso il romitorio di Olivares che la regina Urraca aveva donato ai frati minori, e chiamato così perché situato tra gli olivi.

I frati, come era prescritto loro dalla Regola, elemosinavano di porta in porta, e, nella vicina città di Coimbra, spesso bussavano al ricco Monastero di S. Croce, dove, in quel tempo era “ospitaliere” o “foresteraio“, aveva cioè il compito di accogliere i viandanti, il canonico agostiniano Fernando Martinez da Lisbona, divenuto poi Antonio, e che oggi veneriamo come S. Antonio di Padova.

Come riferisce il “Breviario dei Canonici regolari portoghesi”, un giorno i cinque missionari diretti in Marocco, avevano bussato alla porta del Monastero di S. Croce, chiedendo ospitalità, e Fernando li aveva accolti.

Il giovane viveva in quel momento una situazione particolare, di grande sofferenza.

Entrato a 15 anni tra i canonici agostiniani a Lisbona, era passato poi a Coimbra, all’Abbazia di S. Croce, uno dei centri di cultura più importanti del Regno; qui si dedicava alla preghiera, allo studio e all’apostolato.

Purtroppo il priore, Giovanni, era una “creatura” del re e accettava supinamente le pesanti ingerenze politiche della corte nella vita del monastero.

Accusato di aver dilapidato i beni dell’Abbazia, di aver dato esempio di vita dissoluta e di aver fatto scadere la disciplina dei religiosi, era stato scomunicato.

Il priore, però, aveva continuato ad occupare la sua carica e a celebrare la santa Messa, sfidando il Papa e il vescovo, e incorrendo in altre sanzioni.

La comunità si era divisa in due fazioni: da una parte i seguaci del superiore deposto, dall’altra i fedeli al Pontefice e al vescovo di Coimbra.

Questa situazione era per il giovane Fernando una prova aspra che lo aveva spinto a tuffarsi sempre più nella preghiera e nel lavoro intellettuale; l’incontro con i cinque missionari francescani fu provvidenziale per le sue scelte future.

Quei giovani vestiti di ruvido saio, «contenti di una tonaca rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache», che chiedevano con umiltà e ringraziavano dicendo «Il Signore ti dia pace», colpirono profondamente il giovane Fernando.

Avvertiva nella loro povertà materiale una indefinibile grandezza spirituale; seppe che venivano dall’Italia, ed erano seguaci di quel Francesco d’Assisi di cui conosceva la fama di santita

Avrà sicuramente parlato con loro; non sappiamo cosa si dissero, ma si può ritenere per certo che la vista di quegli ospiti così lieti nella povertà e desiderosi del martirio, aumentasse il suo desiderio di abbracciare un modo di vita integralmente conforme agli insegnamenti del Vangelo, cosa che farà vestendo il saio francescano.

*Testimoni lungo il cammino

Durante la loro breve permanenza ad Olivares, la regina Urraca aveva avuto del colloqui con i frati e, vista la loro profonda fede, li aveva pregati di rivolgersi a Dio, per sapere quando avrebbe lasciato questa vita.

Dopo diversi rifiuti, i giovani, vinti dalla sua devozione, esaudirono la sua richiesta. Illuminati da Dio, predissero il proprio martirio, e dissero alla regina che lei sarebbe morta poco tempo dopo il ritorno delle loro reliquie a Coimbra.

Partiti dalla città, Ottone e i suoi compagni si diressero verso Alenquer, dove furono accolti da Sancha, sorella del re Alfonso II, donna devotissima, la quale, nel 1217, aveva donato ai Frati Minori la cappella di Santa Caterina, accanto alla quale aveva fatto costruire, per loro, un piccolo romitorio.

La principessa, colpita da quell’ardente desiderio di martirio, era molto preoccupata per la loro incolumità.

Pensava, a ragione, che presentandosi con il logoro abito della predicazione, essi avrebbero immediatamente suscitato le ire non solo dei Mori ma anche di quanti commerciavano con loro; li esortò, quindi, a cambiarsi di abito fornendo essa stessa gli indumenti più opportuni per il resto del viaggio attraverso un territorio potenzialmente ostile.

Indossati questi abiti “borghesi“, gli Apostoli umbri partirono alla volta della ricca città di Siviglia, allora capitale dei re Mori, in quanto parte della Spagna era ancora sotto il dominio degli Arabi.

A Siviglia, per otto giorni, furono ospiti di un ricco mercante cristiano; rivestito il saio, essi trascorsero questo breve periodo nella preghiera continua, affinché il Signore «desse loro tanto di forza e di sapienza da compiere degnamente l’opera che, per sua gloria e salute delle anime, si erano addossati».

Quando però rivelarono al loro ospite l’intenzione di predicare il Vangelo di Cristo e la penitenza agli infedeli, questi cercò in ogni modo di farli desistere dall’impresa, perché «assai più che la dilatazione del Vangelo amava i vantaggi e le speranze de’ suoi commerci»; sorpresi e sdegnati, Berardo e i suoi compagni abbandonarono la sua casa e, dando ascolto solo al proprio zelo, si recarono immediatamente alla principale moschea e si misero a predicare il Vangelo.

Naturalmente furono presi per pazzi e malmenati «giacché in abito strano e lingua forestiera eransi usati entrare nella moschea e disturbare la maomettana orazione»; ma quelli, senza scomporsi, si recarono al palazzo del re e chiesero di parlargli facendosi annunciare come ambasciatori del re dei re, assoluto padrone e Signore di tutto il mondo!

Il Sultano li ascoltò di malavoglia e quando li udì parlare di varie questioni inerenti la vera fede, comandò che fossero imprigionati in una torre.

I cinque non si persero d’animo, anzi, saliti in cima alla torre stessa, con quanta voce avevano, seguitarono a predicare tra lo stupore degli abitanti della città; per impedire che continuassero, furono gettati nei sotterranei.

Sembra che in seguito alla loro pervicacia nella predicazione ritenuta blasfema, il Sultano avrebbe voluto farli decapitare subito, con gioia somma dei prigionieri che vedevano così realizzato il desiderio di offrire la propria vita per Cristo, ma un principe moro gli aveva fatto notare che una sentenza simile sarebbe stata non solo sommaria ma anche troppo rigorosa, pertanto lo aveva invitato alla clemenza.

Convinto da quelle parole, qualche giorno dopo, il Sultano li fece chiamare in tribunale e, saputo che desideravano passare in Africa, anziché rimandarli in Italia li fece imbarcare alla volta del Marocco «sopra una nave che tragittava in Africa parecchi cristiani malcontenti».

Perseveranza nella fede

I cinque frati si imbarcarono con don Pedro, infante di Portogallo, il quale, in seguito a dissapori con il fratello Alfonso II, si era messo al servizio del Sultano, pur conservando la fede cattolica.

Giunti a Marrakech, don Pedro li accolse nella propria casa con grande disponibilità, ma li invitò alla cautela, poiché temeva per la loro salute, già compromessa dal lungo viaggio, dalle privazioni e, soprattutto, dalla prigionia a Siviglia.

«Don Pedro si intenerì fino alle lacrime in vedendo come gli avesse sì smunti e disfatti la dura prigionia imperocchéi loro volti erano sì pallidi e macri che la pelle pareva alle ossa appiccata e l’occhiaia profonda e le spalle curvate sotto al peso della mortificazione e della croce del loro maestro Gesù Cristo».

Nonostante le raccomandazioni di don Pedro, i cinque frati cominciarono la loro opera di conversione sin dal primo giorno, e presero a predicare in ogni angolo della città.

Berardo che conosceva l’arabo, «anzi molto addentro era nella cognizione di quella lingua», si mise a predicare sopra un carro mentre passava il Sultano che si recava a visitare le tombe dei suoi antenati; questi, informatosi su di lui e sui suoi compagni, sia pure adirato per le loro parole, prendendoli per pazzi, si contentò di cacciarli fuori dalla città con l’ordine che fossero rimandati in Spagna, nelle terre dei cristiani.

Don Pedro si rallegrò di questa decisione che salvava loro la vita, e tentò di inviarli a Ceuta, da dove salpavano le navi per la Spagna, ma quelli rientrarono invece in città e tornarono a predicare sulla pubblica piazza tra lo stupore generale per tanto ardire e fermezza di propositi, poiché avevano già sperimentato le percosse e gli stenti della prigione e tuttavia erano tornati sui propri passi per annunciare ancora una volta Cristo e il suo Vangelo.

Visto che avevano disubbidito ai suoi ordini e tradito la sua clemenza, il Sultano li fece arrestare e gettare in una fossa, con l’ordine di lasciarli lì a morire di fame e di sete.

Berardo e i suoi restarono nella prigione per tre settimane; in quei giorni si verificarono in città «penuria d’acqua e forte pestilenza e mortalità» o forse, come scrive l’anonimo testimone dei fatti, autore del loro martirologio, «una lunga, infuocala bufera».

Questi fenomeni vennero attribuiti alla loro prigionìa, di conseguenza il popolo ne chiese e ottenne la liberazione; oppure, stando all’anonimo cronista, fu un consigliere dello stesso Sultano a sollecitarne la scarcerazione, interpretando la persistente tempesta come una punizione del cielo proprio contro i frati, blasfemi verso la loro religione.

Tirati fuori dal pozzo Ottone, Berardo, Pietro, Accursio e Adiuto furono trovati in condizioni migliori di quando vi erano stati buttati.

Stupìto da questi fatti, il Sultano ordinò per la seconda volta che fossero consegnati ai cristiani e fatti ripartire per la Spagna, ma ancora una volta essi sfuggirono ad ogni controllo e tornarono a predicare per vie e piazze, al che don Pedro, temendo che il loro eccessivo zelo pregiudicasse anche i cristiani del suo seguito, li fece ricondurre alla propria residenza, ordinando di tenerli sotto stretta sorveglianza.

Mentre accadevano questi fatti in città, alcune tribù dell’interno del Marocco si ribellarono al Sultano, il quale inviò contro di loro truppe miste composte anche di portoghesi al comando dello stesso don Pedro; questi decise di portare con sé i cinque frati, per salvarli da qualunque rappresaglia durante la propria assenza; essi lo seguirono di buon grado, essendo desiderosi di proseguire l’opera missionaria all’interno della regione.

Le truppe del Sultano e di don Pedro ebbero la meglio sui ribelli, e ben presto intrapresero il viaggio di ritorno; nel rientro a Marrakech, in una lunga marcia attraverso il deserto, venne a mancare l’acqua per tre giorni e «molti dei soldati si morivano divorati dalla sete».

Berardo, rispondendo alle preghiere dei compagni, invocò Dio, prese una vanga e scavò una fossa dalla quale scaturì acqua fresca sufficiente non solo a dissetare l’esercito in marcia, ma anche a riempire otri e vasi d’ogni tipo per il resto del cammino.

Durante il viaggio di ritorno, i cinque ebbero anche la meglio in dispute di natura teologica con un saggio iman arabo, che faceva parte della spedizione e che sparì addirittura dal Marocco non potendo reggere all’umiliazione subìta.

Rientrati in città, Berardo e compagni ripresero a predicare nonostante i precedenti divieti, suscitando nuovamente le ire del Sultano, il quale, risentito anche per la storia dell’iman, ordinò ad un suo ufficiale, o forse si trattava di un principe, di nome Abozaida, di farli morire tra i tormenti.

*Accanto a Gesù, povero e crocifisso

Abozaida conosce i frati e ha assistito al miracolo della sorgente scaturita dal deserto, perciò, sperando di convincerli a desistere dalla predicazione e poter salvar loro la vita, si limita a farli imprigionare.

Nonostante i carcerieri li spoglino, li leghino e li frustino a sangue, quelli restano fermi nelle loro posizioni; allora Abozaida vuole che siano portati alla sua presenza e comincia ad interrogarli personalmente sulla loro provenienza e sul motivo della loro venuta tra un popolo ostile ai cristiani.

Per nulla intimoriti, i giovani dichiarano di essere giunti sin là con il permesso «del fratello maggiore Francesco» a sua volta impegnato a cercare il bene di ogni uomo e aggiungono: «Siamo venuti per predicarvi la via della verità: benché voi non lo crediate, vi amiamo di cuore, per grazia di Dio».

Incuriosito, Abozaida chiede quale sia questa via della verità, e Ottone gli risponde: «Che crediate in un solo Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, e crediate che il Figlio si è fatto uomo e alla fine è stato crocifisso per la salvezza di tutti. Coloro che non credono in ciò, saranno senza scampo condannati ai tormenti del fuoco eterno».

Questa risposta non suscita ancora la rabbia di Abozaida, anzi ne solletica il sarcasmo e, quasi a irridere Ottone e i suoi compagni, gli chiede dove ha appreso tali notizie.

Ancora una volta il giovane frate risponde con la salda fermezza della fede: «Le ho apprese dalla testimonianza di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, e di tutti i patriarchi e i profeti, e dello stesso Signore nostro Gesù Cristo: è Lui la Via, e chi cammina fuori di Lui va per la via sbagliata; è Lui la Verità, e senza di Lui tutto è inganno; è Lui la Vita e senza di Lui non c’è che la morte senza fine».

Questa risposta suona come una bestemmia alle orecchie di Abozaida, il quale, furioso per le parole di condanna proferite da Ottone in difesa della vera fede, ordina che i giovani siano separati l’uno dall’altro e consegnati ai carnefici, perché li flagellino nuovamente.

La cronaca racconta che dopo essere stati flagellati per la seconda volta, Berardo e i suoi compagni sono trascinati sopra pezzi di vetro e cocci di vasi rotti, e che sulle loro piaghe vengono versati sale e aceto con olio bollente.

Quella notte di tormento, per Berardo e i suoi compagni fu faticosa e lunga; così anche per i carnefici che, sul far dell’alba, si assopiscono brevemente.

In questo stato di torpore, le guardie vedono scendere sui loro prigionieri «una luce immensa e divina, che belli di sovrumana bellezza e incoronati di vittoria pareva rapirseli al cielo, tale che li credettero scampati dalle loro mani, ma entrati nel carcere si cessarono da quel sospetto, trovatili assorti in estasi di devotissima preghiera».

Dopo quell’ultima notte in prigione, incatenati e seminudi, i cinque eroi vengono condotti alla presenza del Sultano, il quale, stupìto e allo stesso tempo ammirato della loro fede capace di resistere a ogni supplizio, cerca di convertirli alla propria religione, promettendo a tutti onori, ricchezze e piaceri.

Ancora una volta fu Berardo a parlare a nome di tutti.

Egli, sputando in terra in segno di disprezzo, disse al Sultano: «Ti arretra o Satana, e cessa dal tentare i servi del Signore!».

Questa frase gli causò un forte ceffone da parte dello stesso Miramolino, ma Berardo non si scompose, anzi, «memore del consiglio di Cristo», porse prontamente l’altra guancia.

Vedendo che continuavano imperterriti ad esaltare la fede in Gesù Cristo, il Sultano tenta di irretirli con un’ultima offerta, quella di cinque giovani donne da prendere come mogli, per entrare tra i dignitari di corte ed aver salva la vita; al nuovo rifiuto dei giovani, il Sultano si infuria a tal punto che li decapita personalmente: è il 16 gennaio 1220.

*Il sangue dei martiri: seme fecondissimo

Il martirologio narra che nel momento in cui le loro anime spiccarono il volo per il cielo, apparvero in Alenquer alla loro benefattrice, Sancha, la quale stava pregando nella sua stanza; la principessa in ricordo dell’avvenimento, trasformò poi quella camera in oratorio.

I corpi dei Santi martiri furono gettati con le loro teste mozzate, fuori del recinto del palazzo reale di Marrakech.

La folla se ne impadronì, e tra urla e oltraggi li trascinò per le vie della città, infine li espose sopra un letamaio, perché fossero divorati da cani e uccelli.

Un improvviso temporale mise in fuga la gente e diede ai cristiani il modo di raccogliere i resti dei martiri e trasportarli in casa di don Pedro.

Questi fece costruire due casse d’argento di diversa grandezza: nella più piccola depose le teste, nella più grande i corpi degli uccisi.

Quando ritornò in Portogallo, portò con sé le reliquie dei cinque francescani, che furono portate a Coimbra.

Qui, essendo troppo angusta la cappella del romitorio di Olivares, furono deposte nella chiesa di S. Croce, dove sono ancora conservate.

Tutto il Portogallo fu colpito e commosso da questa vicenda; più di tutti ne fu colpito Fernando Martinez. «Li aveva conosciuti di persona pochi mesi innanzi: quando si inginocchiò sulla loro tomba, sentì che più nulla avrebbe inceppato la sua risoluzione: anche lui doveva partire verso le terre dei mussulmani e morirvi martire. Forse intendeva immolarsi per riparare le colpe commesse dal suo priore traviato, riottenere da Dio giorni migliori per i confratelli tribolati di Santa Croce. Per realizzare il suo sogno comprese che la via più sicura era di farsi francescano».

Alla notizia del martirio dei suoi cinque “figli“, frate Francesco esclamò: «Ora posso dire che ho veramente cinque fratelli minori».

Molti miracoli furono attribuiti da subito all’intercessione potente dei cinque martiri, mentre pene e sofferenze colpirono chi aveva fatto scempio dei loro corpi: al Sultano si paralizzò il braccio con cui aveva infierito sui frati e tutto il suo regno fu colpito da morìa del bestiame, alluvioni e carestia.

Di contro, semplicemente accostandosi alle reliquie dei martiri, si verificarono guarigioni prodigiose di ciechi e paralitici, e furono scacciati demoni. Ma «la gemma più preziosa» che la loro cruenta testimonianza donò all’Ordine serafico, fu Fernando Martinez divenuto frate Antonio.

Quei giovani che erano stati affascinati dalla vita di S. Francesco non tornarono più nella loro terra, perché l’amore a Cristo, sull’esempio di S. Francesco, li aveva spinti a dare la vita per lui.

Accursio, Adiuto, Berardo. Ottone e Pietro, Protomartiri Francescani, furono canonizzati nel 1481, dal frate minore Francesco della Rovere, divenuto papa con il nome di Sisto IV.

La famiglia francescana celebra la loro festa, ogni anno, il 16 di gennaio, giorno del loro «dies natalis».

I primi frati Minori erano detti “Penitenti della città di Assisi”; S. Antonio li descrive così: «Sono semplici come le colombe. Il luogo dove dimorano e il letto stesso sul quale dormono è ruvido e povero. Non offendono alcuno, anzi perdonano chi li offende. Non vivono di rapina, ma distribuiscono le loro cose. Confortano e sostengono con la parola della predicazione quelli che sono stati loro affidati e partecipano con gioia agli altri la grazia che è stata loro data. (…) Fatti tutto a tutti, promuovono tanto la salvezza degli estranei quanto quella dei vicini: amano tutti nel cuore di Gesù Cristo. (…) Non si difendono con le unghie della vendetta, ma con le ali dell’umiltà e della pazienza. (…) Ripieni di buona volontà, nutrono con il massimo scrupolo “due gemelli”, cioè l’amore di Dio e del prossimo».

Questa descrizione ben si addice a Berardo, Ottone, Pietro, Accursio e Adiuto che, abbandonata ogni ricchezza sull’esempio di frate Francesco, hanno donato la vita per amore di Dio e dei fratelli, in assoluta obbedienza al mandato ricevuto.

La povertà e l’obbedienza sono indicate da Antonio come unica via alla vera libertà: «Sentieri della rettitudine sono quelli della povertà e dell’obbedienza: è per questi che ti conduce Cristo col suo esempio, in essi non c’è alcuna tortuosità, ma tutto è diritto e chiaro, e pur essendo così stretti, il cammino non è intralciato. Invece la via del mondo è larga e spaziosa ma per chi vi cammina come ubriaco, essa non è mai abbastanza larga per quanto larga sia (…) invece la povertà e l’obbedienza proprio per il fatto che sono strette danno la libertà: perché la povertà rende ricchi e l’obbedienza liberi. E colui che corre dietro a Gesù in questi sentieri non trova l’inciampo della ricchezza e della propria volontà».

Questa libertà del cuore ha permesso ai Protomartiri Francescani di aprirsi con gioia e fiducia al progetto di Dio, aderendo totalmente a lui e riconoscendolo come unico bene.

Così scrive S. Antonio: «la mente dell’uomo finché si trova davanti a Dio, è come un giardino di delizie (…) e si convince che nulla di buono può avere da se stessa, in se stessa e per se stessa, ma attribuisce tutto a lui, che è tutto il bene, il sommo bene, e dal quale, come dal centro, tutte le linee della grazia si dipartono, giungendo direttamente all’estrema circonferenza».

Missionari di Cristo, Berardo e i suoi compagni hanno operato in modo totalmente pacifico e in piena consonanza di parola e vita, secondo il dettato di Francesco d’Assisi: «Tutti i frati predichino con le opere».

Essi hanno lasciato che lo Spirito Santo li animasse, infatti, spiega S. Antonio, «chi è pieno di Spirito Santo parla diverse lingue».

Le diverse lingue sono le varie testimonianze che possiamo dare a Cristo, come l’umilia, la povertà, la pazienza e l’obbedienza: e parliamo queste “lingue” quando mostriamo agli altri queste virtù praticate in noi stessi.

La lingua è viva quando parlano le opere.

Conformati a Cristo nella povertà radicale, nell’umiltà, nell’obbedienza e nell’amore al Padre ed ai fratelli, i Protomartiri Francescani sono come i gigli del campo di cui parla il Signore e ne possiedono il candore e il profumo. «Essi sono detti gigli del campo. Nel campo sono indicate due cose, la sodezza della santità e la perfezione della carità. Il campo è il mondo nel quale mantenersi fiore è tanto difficile quanto meritorio (…) riuscire a farlo e un grande risultato».

Ottone e i suoi fratelli scelsero dunque di fiorire «in modo eroico nel campo del mondo anziché in un giardino o nel deserto»; operai del Vangelo, essi conservarono «la duplice grazia del fiore, vale a dire la bellezza della vita santa e il profumo della buona fama» seguendo Cristo povero e crocifisso.

Si può affermare, parafrasando Antonio, che ognuno di questi giovani testimoni della fede si è chiesto, alzando gli occhi a Gesù, l’autore della nostra salvezza, inchiodato alla croce: «Perché anche io non soffro con lui? Se lui è davvero la mia vita, e sicuramente lo è, come posso trattenermi ancora?

 Come mai non sono preparato, com’erano Pietro e Tommaso, ad andare in carcere e ad affrontare la morte insieme con lui?».

Berardo, Pietro, Ottone, Accursio e Adiuto sentirono, dunque, l’urgenza di seguire il loro Signore sulla sua stessa via, fino al dono della propria vita come risposta all’amore senza riserve di Gesù Cristo.

Frate Antonio, Dottore evangelico, così spiega le ragioni profonde che dovrebbero spingere ogni uomo a seguire Gesù nella propria via: «Nella creazione, quando tu non esistevi, ha dato te a te stesso; nella redenzione, quando esistevi nel male, ha dato se stesso a te, perché tu fossi nel bene, e quando ha dato se stesso a te, ha anche restituito te a te stesso. Dato dunque e restituito, tu devi te stesso a lui, e ti devi due volte, e ti devi totalmente. (…) Infatti con tutto se stesso ha comperato tutto te stesso, per essere lui solo a possedere tutto te stesso. (…) Ama dunque con tutto te stesso, e non con una sola parte di te».

In questo modo amarono i cinque fraticelli umbri, i quali, nel loro cammino verso il martirio, non solo lasciarono tutto, lasciarono anche se stessi.

Chiarisce infatti Frate Antonio: «Il Signore non dice: “Voi che avete lasciato tutto”, ma: “Voi che mi avete seguito”: ciò che è proprio degli apostoli e dei perfetti. Sono molti quelli che lasciano tutto, ma che tuttavia non seguono Cristo, perché, per così dire, trattengono se stessi. (…) Chi segue un altro nella via, non guarda a se stesso, ma all’altro che ha costituito guida del suo cammino. Lasciare se stesso significa non confidare in sé in nessun caso, ritenersi inutile anche quando si è fatto tutto ciò che è stato comandato, disprezzare se stesso, non anteporsi a nessuno nel proprio cuore, (…) umiliarsi profondamente in ogni occasione e abbandonarsi totalmente a Dio».

Saldi nella fede, i Protomartiri Francescani hanno vinto anche la paura più radicata nell’uomo, quella della morte, come riconosce lo stesso frate Antonio: «Nessuno mai vorrebbe morire, senso che è talmente radicato nella natura umana che neanche la vecchiaia riesce ad eliminarlo. Anche Gesù, del resto, disse: “Passi da me questo calice”. Ma per quanto grande sia l’avversione alla morte, essa viene vinta dalla forza dell’amore: se non ci fosse l’avversione alla morte o questa fosse debole e leggera, non sarebbe così grande la gloria del martirio».

La fede rinsaldò Berardo e i suoi compagni anche nell’obbedienza al mandato ricevuto da frate Francesco, poiché, ribadisce il Dottore evangelico, «l’obbedienza perfetta (…) non deve discutere su ciò che viene comandato o perché viene comandato, ma deve solo sforzarsi di eseguire fedelmente e umilmente ciò che viene ordinato dal superiore. (…) Chi vuol essere perfetto obbediente deve spogliarsi di tre cose: del suo modo di vedere, della sua volontà e del suo corpo (…) con questa morte l’obbediente glorifica il Signore qui in terra, e quindi in cielo sarà glorificato dal Signore che è benedetto nei secoli».

E Berardo, Ottone, Pietro, Accursio e Adiuto sono nella gloria del Signore, perché «hanno cercato il regno di Dio con la fede, con la speranza, con la carità. Cercare questo regno vuol dire realizzare pienamente con le opere la giustizia del regno di Dio (…) di cui si legge: “Le porte di Gerusalemme saranno ricostruite di zaffiro e smeraldo”. (…) Lo smeraldo, che è tanto verde da superare il verde di tutte le erbe (…) simboleggia i martiri i quali, con il loro sangue, copiosamente versato aspersero nell’orto della Chiesa le anime piantatevi dal lavoro degli apostoli, perché perdurassero nel fresco verde della fede. Dunque con lo zaffiro degli apostoli e con lo smeraldo dei martiri, furono edificate le porte della Chiesa militante, affinché per mezzo di essi fosse visibile ed agevole l’ingresso nel regno di Dio».

La testimonianza dei Protomartiri Francescani, rivisitata alla luce degli scritti di S. Antonio, conferma che è possibile vivere pienamente il Vangelo solo nella costante imitazione di Cristo, umile, obbediente, povero e crocifisso, perché, spiega ancora il Dottore evangelico, «Cristo ebbe una duplice eredità: una da parte della Madre, cioè la fatica e il dolore; l’altra da parte del Padre, e cioè il gaudio e il riposo. Per il fatto che noi siamo suoi coeredi, dobbiamo ricercare anche noi questa duplice eredità, ma sbagliamo se vogliamo avere la seconda senza la prima. Il Signore ha fondato la seconda sulla prima proprio perché non avessimo quella pretesa. Procuriamo dunque di venire in possesso della prima eredità che Gesù Cristo ci ha lasciato, per meritare di arrivare alla seconda».

Questa fu l’eredità desiderata e accolta da Berardo, Ottone, Adiuto, Pietro e Accursio: dare la vita per amore, rendere il contraccambio al loro Signore Gesù Cristo e Dio glielo concesse.

Per quanti desiderino il testo “integrale” relativo alla vicenda dei cinque Santi Protomartiri Francescani: P. Rossi, Francescani e Islam – I primi cinque martiri (Il martirio dei cinque frati minori in Marocco); Ed. ITEA, Arezzo 2001, pp. 120 (ingentilito da miniature e dal rifacimento “amanuense” della “Cronaca anonima del sec. XIII“), richiedere a Redazione.

Paulo Duarte
secprov@ofm.org.pt
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